Se vuoi conoscere a fondo la verità, incomincia dall’alfabeto!
In epoca precedente alla seconda metà del X secolo, la scrittura iniziò a svilupparsi nella Rus’ di Kiev (il primo Stato slavo- orientale). La conversione al cristianesimo bizantino però, imposta dal principe Vladimir nel 988, accelerò la diffusione della scrittura cirillica tra gli Slavi orientali. Molti scavi archeologici, infatti, hanno dimostrato che a partire dall’XI secolo nei più importanti centri abitati della Rus’ persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali erano in grado di scrivere.
Già nella seconda metà del IX secolo Cirillo e Metodio, due fratelli monaci bizantini di Tessalonica, si resero fautori di un importante rivoluzione culturale: nell’ 863 Rastislav, principe della Grande Moravia, per sottrarsi al sempre più incombente influsso franco-tedesco, si rivolse all’imperatore di Bisanzio, Michele III, per avere dei missionari in grado di evangelizzare gli Slavi direttamente nella loro lingua, elevando così anche lo slavo a lingua di culto. Per la predicazione i due fratelli codificarono una lingua sovranazionale detta paleoslavo o antico slavo ecclesiastico, basata sul loro dialetto bulgaro-macedone e integrata con grecismi sintattico-lessicali. Cirillo mise inoltre a punto un alfabeto, il glagolittico, con cui il sistema fonetico slavo veniva riprodotto in modo estremamente preciso. Così, in paleoslavo avvalendosi dell’alfabeto glagolittico e coadiuvati da dotti collaboratori, Cirillo e Metodio, tradussero i testi fondamentali per la cristianità slava.
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Diffusosi dapprima in Moravia, il glagolittico si estese poi in Bulgaria, il primo Stato slavo-meridionale convertitosi al cristianesimo nell’864. Gli Slavi pagani sin dal VI secolo utilizzavano un codice di 130 caratteri (rune bulgare) e avevano già provato a scrivere la loro lingua in caratteri latini e greci, ma invano per le difficoltà di rappresentare certi suoni. Il paleoslavo delle origini fu così sostituito, nella Chiesa cattolica, dallo slavo ecclesiastico – detto slavone – di redazione bulgaro-macedone, serba e russa.
Attorno al X secolo un allievo di Cirillo e Metodio, Clemente d’Ochrida, su commissione del principe bulgaro Boris I, mise a punto un alfabeto più semplice del glagolittico e basato principalmente su quello greco: il cirillico propriamente detto.
Nei secoli X-XI coesistevano dunque due diversi alfabeti: il glagolittico, destinato all’estinzione data la sua complessità, e il cirillico, diffusosi anzitutto in Bulgaria, poi nella Rus’ di Kiev, quindi in Serbia e Macedonia.
Su questa base comune si formeranno così gli alfabeti cirillici moderni nella variante russa, ucraina, bielorussa, serba, bulgara e macedone.
L’alfabeto cirillico russo nel corso del tempo subì due importanti riforme: nel 1708-1710 con Piero il Grande venne introdotta la “Scrittura cittadina”, che eliminò parecchie lettere (Ѯ, Ѱ, Ѡ) e diacritici (a parte in й); in più bandì l’uso dei numerali cirillici, introducendo la numerazione araba. Per la prima volta così, la lingua russa veniva scritta con lettere diverse dall’antico slavo orientale. La seconda e più importante avvenne tra il 1917 ed il 1918 con la Rivoluzione d’Ottobre. Venne preparata da una commissione guidata dal filologo e linguista Aleksej Šachmatov, e venne applicata ufficialmente nell’anno successivo dai bolscevichi ormai al potere in Russia. Semplificò l’ortografia unificando la declinazione di vari aggettivi e pronomi, sostituì alcune lettere con nuovi grafemi ed eliminò così l’ultima reminiscenza grafica del sistema “a sillaba aperta” dell’antico slavo.
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Per approfondire l’argomento vi suggerisco i seguenti testi:
L’alfabeto cirillico moderno consta di 33 grafemi maiuscole e minuscole: 20 consonanti, 10 vocali, e 2 segni muti. Le 33 lettere rappresentano 42 fonemi diversi: 6 vocalici, 35 consonantici e 1 semiconsonantico. Il fatto che il cirillico abbia ben 12 lettere in più rispetto alle 21 dell’alfabeto italiano o alle 7 di quello latino è dovuto semplicemente al fatto che c’è una maggiore corrispondenza tra il segno scritto e il suono. Non prevede però né accenti né segni diacritici, eccetto i due punti (sempre obbligatori) sulla lettera “ё” [jo] e il segno sulla “й” breve [j] per distinguerla dalla “и” [i].
Per approfondire l’argomento vi suggerisco i seguenti testi: Lacko Michele, Cirillo e Metodio. Apostoli degli slavi, La casa di Matriona, Milano, 1981; Uspenskij Boris A., storia della lingua letteratura russa. Dall’antica Rus’ a Puskin, il Mulino, Bologna, 1993; Fici Giusti Francesca, Gebert Lucyna, Signorini Simonetta, Lingua russa. Storia, struttura, tipologia, La nuova Italia scientifica, 1991.
Novaja Gazeta (in russo Новая газета [Novaya Gazeta]), letteralmente Nuovo Giornale, è un periodico russo libero ed indipendente che ha pubblicato importanti inchieste su casi di corruzione nell’esercito e sulla condizione dei civili ceceni coinvolti nel conflitto armato, di cui è sempre stato convinto oppositore.
Il primo numero uscì il primo aprile del 1993, e fu la concretizzazione di un sogno di alcuni giornalisti usciti dalla redazione di Pravda, tra cui Dmitrij Muratov che ne divenne caporedattore nel 1995. La testata Pravda si era divisa e parte dei suoi collaboratori più stretti decisero di crearne una nuova, sostenuta da Michail Gorbacev (che tutt’oggi è uno dei suoi azionisti più attivi). Ci si proponeva che il giornale fosse onesto, indipendente, con un ricco budget, autorevole e pan-russo, cioè che si occupasse di tutta la Russia. Obiettivo principale del giornale era una totale e incondizionata indipendenza, in particolare sulla libertà di stampa. Oggi la Novaja Gazeta ha una tiratura di 550.000 copie ed esce tre volte alla settimana, con due edizioni diverse a San Pietroburgo e a Mosca.
Tra le inchieste più importanti del giornale vanno ricordate quelle sull’occupazione del Teatro Dubrovka, sullo stupro e l’assassinio della donna cecena El’za Kungaeva perpetrato dal colonnello Budanov; sulla presa della scuola di Beslan; sulla “začistka” (rastrellamento) della polizia nel centro di Blagovesensk, in Baschiria, sulla fucilazione di civili ceceni da parte del capitano del GRU (i servizi segreti russi) Eduard Ul’man, molti dei quali recavano la firma di Anna Politkovskaja, uccisa a Mosca nel 2006 in circostanze poco chiare. Il bollettino della loro guerra d’informazione, infatti, riporta cinque vittime dal 2000, fra giornalisti e collaboratori.
Teatro Dobrovka
El’za Kungaeva
Scuola Beslan
Il 13 aprile 2017 infatti, la redazione del Novaja Gazeta pubblicò una dichiarazione nella quale rivelava di temere per la propria sicurezza in seguito alla pubblicazione dell’articolo che denunciava detenzioni, torture e uccisioni di uomini ceceni sospettati di essere omosessuali; pubblicò i rapporti sulle purghe anti-gay in Cecenia, dove tre uomini furono presumibilmente uccisi e dozzine detenuti e intimiditi. Il giornale ha pubblicato il rapporto di Elena Milashina e l’elenco dei 27 ceceni uccisi il 26 gennaio 2017. Il giornale ha anche indirizzato il rapporto e l’elenco al servizio del governo russo, al Comitato investigativo della Russia e ha chiesto di indagare sui dati sulla lista pubblicata. Le autorità cecene negarono con forza le accuse definendole come tentativo di minare la reputazione della Cecenia. Quando l’inchiesta venne alla luce, alcuni organi di stampa russi e internazionali pubblicarono diverse testimonianze di omosessuali ceceni che riuscirono a lasciare la repubblica. The Guardian, ad esempio, riferì che le autorità cecene fecero ricorso alla tattica del ricatto lavorativo per gli omosessuali volta ad identificarli in cambio della promessa, da parte della polizia, di non rivelare nulla alle famiglie.
Nel giugno del 2009 la Federazione Internazionale dei giornalisti ha pubblicato una vasta indagine in relazione alle morti di giornalisti russi. Nello stesso anno la IFJ ha lanciato un archivio on-line che documentava della morte o sparizione di trecento giornalisti a partire dal 1993. Come il report Partial Justice (la versione russa: Частичное правосудие) anche l’archivio di IFJ si basa sulle informazioni raccolte da Glasnost Defense Foundation e Center for Journalism in Extreme Situations a proposito della situazione dei media in Russia negli ultimi sedici anni. L’organizzazione per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha riconosciuto che la Russia è uno dei Paesi più pericolosi per i giornalisti e il peggiore per quanto riguarda la risoluzione degli omicidi. Secondo le organizzazioni che monitorano la situazione dei media in Russia, il database di IFJ sulle morti e la scomparsa dei giornalisti raccoglie tutti i diversi casi relativi ai lavoratori dei media. Il database, inoltre, classifica le diverse tipologie di morte dei giornalisti (omicidio, incidente, conflitto, atto terroristico) e chiarisce se la morte dei giornalisti è “certamente”, “possibilmente” o “non probabilmente” legata al lavoro giornalistico.
Novaya Gazeta è conosciuto come uno dei “pochi giornali veramente critici con influenza nazionale in Russia oggi” dal Comitato per la protezione dei giornalisti. Muratov, direttore dal ’95 al 2017 e dal 2019 a oggi, ha spesso riferito su argomenti sensibili tra cui violazioni dei diritti umani, corruzione governativa di alto livello e abuso di potere. Le sue convinzioni politiche, come il sostegno alla libertà di stampa, hanno portato a conflitti con i colleghi giornalisti e il governo.
D. Muratov
Nel 2004, il giornale ha pubblicato sette articoli dell’editorialista Georgy Rozhnov, che accusava Sergey Kiriyenko di aver indebitamente ottenuto 4,8 miliardi di dollari di fondi del Fondo Monetario Internazionale nel 1998, quando era Primo Ministro della Russia. In risposta, Kiriyenko citò in giudizio Novaya Gazeta e Rozhnov per diffamazione, e nel giudicare a favore di Kiriyenko la Corte ordinò a Novaya Gazeta di ritirare tutte le pubblicazioni relative alle accuse.
Dopo la pubblicazione di un’inchiesta del giornalista Denis Korotkov su un uomo d’affari russo Yevgeny Prigozhin, legato al Cremlino, nell’ottobre 2018, Denis Korotkov e il caporedattore del giornale sono stati l’obiettivo di minacciose consegne di una testa di ariete mozzata e fiori funebri agli uffici del giornale.
Durante il periodo di Muratov alla Novaya Gazeta, sei dei suoi giornalisti sono stati uccisi. Nel 2000, Igor Domnikov fu assassinato in un condominio di Mosca. Nel 2001, Victor Popkov morì dopo essere stato ferito nel fuoco incrociato di uno scontro a fuoco in Cecenia. Nel 2003, Yury Shchekochikhin morì dopo aver indagato su uno scandalo di corruzione in cui erano coinvolti alti funzionari russi.
Anna Politkovskaya è stata assassinata nel suo condominio nel 2006 dopo aver trascorso la sua carriera coprendo la Cecenia e il Caucaso settentrionale. Nel 2009, sia Anastasia Baburova che Natalia Estemirova sono state uccise a colpi di arma da fuoco.
Anna Politkovskaya
Muratov si è dimesso dal giornale nel 2017 parlando della natura estenuante della gestione del giornale. La sua assenza è stata comunque breve in quanto ha ripreso la sua posizione nel 2019 dopo che lo staff del giornale ha votato per il suo ritorno. La sua carriera giornalistica era però iniziata molto tempo prima: dal 1987aveva iniziato a lavorare come corrispondente per il giornale Volzhsky Komsomolets. I suoi superiori rimasero così colpiti dal suo talento che alla fine del suo primo anno ricevette la nomina di capo del dipartimento giovanile della Komsomolskaya Pravda, e in seguito fu promosso redattore di articoli di notizie.
D. Muratov, Premio Nobel per la Pace
È così che quest’anno, il Premio Nobel per la Pace, è stato assegnato a Muratov «per gli sforzi atti a salvaguardare la libertà di espressione, che è una condizione preliminare per la democrazia e una pace duratura». «Vi dirò questo: non è merito mio. E’ Novaya Gazeta. Sono quelli che sono morti difendendo il diritto delle persone alla libertà di parola. Siccome loro non sono con noi, probabilmente hanno deciso che sia io a dirlo a tutti», ha dichiarato Muratov alla Tass. è chiaramente stata premiata una tematica fondamentale in tempi di Fake News, quella della libertà di informazione. «Un premio alla libertà di stampa in ambienti ostili al giornalismo indipendente», ha detto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. La presidente del Comitato Berit Reiss-Andersen ha spiegato che il premio è stato meritato «per la coraggiosa lotta per la libertà di espressione», e ciò in rappresentanza «di tutti i giornalisti che si impegnano per questo ideale in un mondo che pone condizioni sempre più avverse alla democrazia e alla libertà di stampa. Un giornalismo libero, indipendente e basato sui fatti protegge contro l’abuso di potere, le bugie, la propaganda».
La storia del giornalismo in Russia la si può far risalire al XIX secolo, segnata dagli scarsi livelli di alfabetizzazione, dalla censura e dal controllo governativo nonché dall’enfasi posta dai media su politica e propaganda.
La Russia imperiale infatti, essendo un’autocrazia, non prevedeva la libertà di stampa e limitava fortemente l’attività giornalistica. Fino al 1860 i russi riuscivano a procurarsi informazioni e notizie di nascosto tramite giornali e giornalisti stranieri. I comunicati stampa ufficiali erano emessi attraverso diversi dicasteri: ad esempio, il periodico Russky Invalid, nato indipendente e, dal 1893 al 1917 finito con l’essere la rivista ufficiale del Ministero della Guerra.
Severnaia Pchela fu il primo quotidiano privato la cui pubblicazione era subordinata al vaglio governativo nella persona di Alexander Smirdin, noto editore di testi letterari, di libri di testo scolastici e delle riviste letterarie Biblioteka Dlya Chtenya e Syn otechestva. Severnaia Pchela fu pubblicata a San Pietroburgo dal 1825 al 1860 e si rivolgeva a un pubblico di intellettuali e personalità del mondo urbano caratterizzato da un raffinato gusto letterario. La sua attività fu oggetto della satira di Alexander Pushkin.
Alexander Smirdin
Dal 1839 al 1867, fu attiva anche la rivista letteraria Otechestvennye Zapiski fondata dall’editore e giornalista russo Andrey Krayevsky, che nel 1863 aveva dato vita al popolare quotidiano Golos. Krayevsky fu anche il condirettore di Russky Invalid e di Sankt-Peterburgskie Vedomosti, un periodico che avevo raggiunto una tiratura di 12 000 copie.
Nella seconda metà del XIX secolo, lo zar Alessandro II allentò dei vincoli della censura, autorizzando la creazione di circa sessanta nuovi quotidiani. Golos superò la media di 23 000 copie e il suo imprenditore riuscì a fondare la prima agenzia di stampa russa.
Aleksey Suvorin fu un importante curatore e editore di libri, nonché gestore di una catena di librerie. La sua opera fu tollerata dal governo malgrado il suo punto di vista conservatore e nazionalista, anche in forza dell’alto livello qualitativo dei suoi prodotti editoriali, largamente riconosciuto in Russia.
Il periodico The Russian Bulletin promosse il liberalismo, elogiando l’azione riformatrice di Alessandro II al quale chiese l’introduzione dello Stato di diritto e delle giurie popolari nei tribunali. Nel 1900, chiese al sovrano di promulgare una costituzione e di istituire un parlamento, la Duma, non mancando di tessere le lodi del vecchio apparato rappresentativo della comune agreste (la obščina) e degli zemstvo. La rivista esercitò una pressione politica perché fossero garantite una maggiore uguaglianza e una diffidenza aprioristica nei confronti del capitalismo, dell’industria e degli uomini d’affari.
Il successo di pubblico non riguardò questa rivista liberale, quanto piuttosto i giornali della sinistra sovietica che erano pubblicati clandestinamente dai partiti rivoluzionari, oltre a 429 titoli satirici non autorizzati e diretti contro il regime zarista. Entrambi furono presi di mira dalla censura governativa, che li chiuse dopo poco tempo.
Malgrado la repressione politica, il numero di quotidiani e settimanali continuò a crescere: l’unica soluzione praticabile per la censura governativa era quella di piegare il contenuto della notizia ai propri fini, prima che essa fosse pubblicata. L’Agenzia Telegrafica Russa di San Pietroburgo supportò l’azione politica e propagandistica degli zar, contribuendo ad aumentare il livello di alfabetizzazione media delle masse. Tra il 1904 e il 1917 fece circolare un complesso di informazioni fattuali passate dal governo al fine di manipolare l’opinione pubblica e orientarla a favore della rapida campagna di industrializzazione del Paese diretta dal ministro delle finanze Sergei Witte. L’agenzia fu infine rilevata dai bolscevichi nel 1917.
Vestnik Evropy divenne la più nota rivista liberale russa alla fine del XIX secolo. Pubblicata dal 1866 al 1918, il suo primo redattore Mikhail Matveevich Stasiulevich illustrò il liberalismo di John Stuart Mill e il socialismo di Proudhon mediante una rassegna delle loro opere. L’intento era quello di prevenire qualsiasi radicalizzazione della politica e di proporre una terza via del liberalismo russo, distinta da quello europeo, che era storicamente segnato dallo scontro fra la borghesia e la classe operaia.
Vestnik Evropy
Il nazionalismo russo fu consolidato dall’opera di Mikhail Katkov, il quale, pur non essendo un affermato teorico politico, era un brillante giornalista con un’ottima dialettica, che lo rese un punto di snodo per la creazione di un sentimento di identità nazionale. Dopo la guerra di Crimea del 1856 e l’insurrezione polacca del 1863, Katkov abbandonò le sue opinioni liberali anglofone e alle riforme di Alessandro II oppose l’idea di uno “Stato forte” russo, fondato su un popolo entusiasta e unito da una visione nazionale comune. La rivista letteraria Russkii Vestnik e il giornale Moskovskiye Vedomosti furono gli organi di diffusione delle sue idee filoccidentali, opposte a quelle slavofile.
Moskovskiye Vedomosti
Russkii Vestnik
Affermatosi un mercato editoriale di adeguate dimensioni, a partire dal 1895 anche la pubblicità assunse un ruolo di rilievo rispetto alle entrate economiche dei giornali. Il mecenatismo di banche, ferrovie e grandi industrie fece emergere nuove agenzie pubblicitarie. La maggiore di esse, la Mettsel and Co., era arrivata a controllare più della metà del mercato pubblicitario dei quotidiani.
Nel gennaio 1912, i bolscevichi leninisti fondarono il quotidiano Pravda. Fino alla sua soppressione nel 1914, esso fu uno strumento educativo e propagandistico «singolarmente efficace che permise ai bolscevichi di ottenere il controllo del movimento operaio di Pietroburgo e di costruire una base di masse per la propria organizzazione». Da Lenin in poi, i bolscevichi detennero il controllo completo dei media russi, ininterrottamente dal 1917 al 1991. I principali quotidiani nazionali erano Izvestija e Pravda, che fu la prima testata a dotarsi di un’attrezzatura per la stampa di illustrazioni, per vari anni rimasta anche la migliore in termini di resa qualitativa.
Izvestija
Pravda
I principali quotidiani, di concerto tra loro, adottarono e diffusero un lessico e un vocabolario di termini selezionato e specificamente improntato alla retorica e al consolidamento della struttura totalitaria della società. Il controllo della forma e del contenuto della carta stampata permetteva di ostacolare il pensiero critico e di impedire il formarsi di un’opinione pubblica indipendente. La stampa presentava il potere politico come l’autorità della verità, che si scontrava con gli errori talora intenzionali dei burocrati di livello inferiore, e con l’azione di terzi costantemente presentati spie subdole e di traditori servi del capitalismo.
La norma dell’era sovietica era un insormontabile appiattimento dell’opinione pubblica, salvo rare eccezioni di alto livello. Un esempio di questo tipo fu il progetto di costituzione sovietica del 1936, appoggiato da Pravda e da Trud‘, il quotidiano dei lavoratori manuali russi, e avversato da Izvestija di Nikolai Bukharin, che riuscì a cambiare temporaneamente la linea editoriale del partito. Dopo alcuni mesi di attacchi mediatici nei confronti degli oppositori e traditori “trotskyiti”, Bukharin fu arrestato e infine giustiziato nel ’37.
La leadership comunista era radicata nella propaganda della carta stampata, ma prima di tutto aveva necessità di alfabetizzare una popolazione che nel 90% dei casi non era ancora capace nè di leggere nè di scrivere. La scuola divenne la priorità assoluta del governo che mirava ad ottimizzare la successiva opera di giornali e riviste. La manipolazione della quota di opinione pubblica analfabeta era portata a termine mediante l’uso di poster e giagantografie. I piani degli oligarchi includevano anche il monopolio dei nuovi media, come la radio, che era utilizzata per trasmettere i discorsi politici. Le autorità sovietiche si resero conto che la radio era “altamente individualista” e che incoraggiava l’iniziativa privata, un fatto intollerabile per un regime totalitario. Furono quindi imposte sanzioni penali, ma la vera soluzione operativa fu quella di spegnere le trasmissioni via etere, sostituendole con programmi radio trasmessi tramite una rete pubblica su filo di rame con topologia Hub and spoke i cui nodi di terminazione erano gli altoparlanti installati presso le stazioni di ascolto approvate dal governo, i cosiddetti “angoli rossi” delle fabbriche. Lo stile editoriale sovietico stimolava i cittadini all’ascolto dei leader di partito, mediante un coordinamento di discorsi pubblici tenuti di persona, discorsi radiofonici e interventi sulla carta stampata. La professionalità del giornalista fu fortemente limitata nella sintesi e nell’interpretazione dei testi, col totale divieto di aggiungere commenti, rivelare i retroscena o intavolare discussioni con i lettori. Nessuno si azzardò a mettere in discussione la leadership o a sfidarla, nè tantomeno a organizzare conferenze stampa o a divulgare notizie di portata simile.
Ai corrispondenti stranieri era severamente proibito di interloquire con qualsiasi persona al di fuori dei portavoce ufficiali. Il risultato fu una rappresentazione rosea della vita sovietica nei media occidentali, fino a quando negli anni ’50 Nikita Chruščëv non rivelò gli orrori di Stalin. L’esempio più famoso fu quello di Walter Duranty del The New York Times.
La caduta del Muro di Berlino e il crollo del comunismo nella notte nel 1991 liberano i media russi dal controllo governativo. Gli editori e i giornalisti furono colti dall’immediata necessità di reperire e pubblicare notizie accurate, per conquistare un nucleo stabile di lettori abbonati e di entrate pubblicitarie sicure. Con l’ascesa al Cremlino dell’ex KGB Vladimir Putin tornarono ad essere severamente puniti i giornalisti che sfidavano il suo punto di vista ufficiale.
Il presidente russo esercitò un controllo diffuso e pervasivo della stampa, di tipo sia diretto che indiretto. Nel 2012 il governo russo era il padrone di tutte le sei reti televisive nazionali, unitamente a un portafoglio di due reti radio, due dei quattordici quotidiani nazionali e tre quinti dei 45.000 giornali e periodici locali.
«Nel 2013, Reporter senza frontiere, ad esempio, ha classificato la Russia al 148° posto fra 179 Paesi nella sua classifica dedicata alla libertà di stampa. Ha criticato in particolare la Russia per aver represso l’opposizione politica e per l’inettitudine delle autorità nel perseguire con forza e nell’assicurare alla giustizia i criminali che avevano assassinato i giornalisti. Freedom House categorizza i media russi come “non liberi”, sottolineando l’assenza delle tutele e delle forme di garanzia fondamentali per i giornalisti e per le imprese del settore dei media».
Fare controinformazione, oggi, in Russia è un atto di coraggio e troppo spesso non conduce a esiti favorevoli: giornalisti e oppositori spariscono misteriosamente, come nel noto caso di Anna Stepanova Politkovskaja, giornalista del Novaja Gazeta. Sono noti i pericoli in cui incorrono i giornalisti che tentano di fare controinformazione in Russia. Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, dal 1992 al 2006 nel Paese sono stati assassinati 50 professionisti per la loro attività. Il 7 ottobre 2006 la giornalista Anna Politkovskaya, conosciuta per le sue aspre critiche alla politica della Russia in Cecenia e la sua ferrea controinformazione (o libera informazione, dipende dai punti di vista) è stata uccisa nei pressi della sua abitazione, scatenando clamore e disapprovazione in Occidente. Per quella vicenda Putin venne pesantemente accusato di non aver protetto i media liberi e indipendenti. Misure ulteriormente repressive della controinformazione sono state introdotte nel 2019, quando la Duma ha approvato una legge che prevede arresti e multe salate per chi critica il governo e le istituzioni, o chi diffonde fake news. Proprio di recente, lo scorso 30 aprile, questa legge (recentemente modificata e ampliata) è stata applicata contro la scrittrice e giornalista Tatiana Volskaya, presa di mira dagli investigatori dopo la pubblicazione di un articolo in cui denunciava la mancanza di ventilatori per la respirazione in un ospedale durante la pandemia da coronavirus. Citando un medico da lei intervistato ha affermato che, per la carenza di tali attrezzature, il personale medico è stato costretto a scegliere chi curare. Proprio a causa di quest’intervista, la giornalista potrebbe essere accusata penalmente di aver diffuso notizie false. La legge è stata aspramente criticata perché definisce come falso tutto ciò che non coincide con le informazioni ufficiali, imbavagliando ulteriormente giornalisti e blogger.
Novaja Gazeta
Anna Stepanova
Sin dal 2009 il governo russo possiede il 60% dei giornali e quasi tutte le emittenti televisive nazionali, come riporta il succitato report di Freedom of press. Oltre infatti alle ferree restrizioni e alle pressioni del governo sui media indipendenti, questi sono poco numerosi e ovviamente privi di qualsiasi sovvenzione statale. Il governo ha puntato sulla proprietà diretta per controllare e influenzare i principali media nazionali e regionali, in particolare la televisione, che si è ormai totalmente allineata al Cremlino. L’unico canale formalmente non governativo è NTV, di proprietà di Gazprom, il colosso energetico in cui lo Stato ha però una partecipazione di controllo.
La maggior parte degli analisti dei Paesi liberi si è concentrata sulla figura di Putin, che dal 1999 ha ricoperto ininterrottamente la carica di primo ministro o quella di presidente. Maria Lipman ha affermato: «la repressione che seguì il ritorno di Putin al Cremlino nel 2012 si estese ai media liberali, che fino a quel momento erano stati autorizzati a operare in modo alquanto indipendente».
Marian K. Leighton ha dichiarato: «dopo aver messo il bavaglio ai media della carta stampata e della radiotelevisione della Russia, Putin ha rivolto i suoi sforzi su Internet».
In Russia dal 2000 al 2009 sono stati uccisi 19 giornalisti e si calcola che dal post guerra fredda ne siano stati uccisi circa 70. Di questi, 5 scrivevano sulla Novaja Gazeta, il giornale dove scriveva anche Anna Politkovskaja, uccisa con cinque colpi di pistola davanti casa sua il 7 ottobre del 2006. «Il giornalismo in Russia è diventata una vera e propria guerra, dato che i caduti sul campo sono molti e il numero, purtroppo, è destinato a salire», afferma il vicedirettore del giornale Vitaly Yaroshevski durante la gremita conferenza sulla vita del giornalismo russo che si è svolta all’ Hotel Brufani. Il vicedirettore racconta del suo lavoro e di quello dei suoi colleghi che lavorano in una redazione che ormai è diventata anche una sorta di museo dei cimeli dei giornalisti caduti sul lavoro, una redazione in cui le riunioni cominciano sempre con una preghiera in ricordo di tutti loro. Anna Politkovskaja è solo l’ultima delle vittime del sistema politico russo, che decide di non indagare sulle morti di queste persone (solo il 20% degli omicidi ha avuto una soluzione), lasciando l’opinione pubblica russa e mondiale all’oscuro delle reali cause delle morti. E forse questa situazione è anche colpa degli stessi russi, afferma Lidija Yusupova (giornalista e candidata al premio nobel per la difesa dei diritti umani): nessuno si sconvolge di questi avvenimenti né si scandalizza perchè le persone sono ormai drogate dall’informazione fittizia che il governo Putin realizza e diffonde sulle sue tv statali (il alcune zone del Caucaso e della Cecenia è possibile vedere solo il “primo canale” dello Stato), simbolo della totale mancanza del legame tra la popolazione e le istituzioni governative. E che, anzi, a volte si sente quasi offesa dalle manifestazioni che si svolgono in altre parti del mondo, dove il livello di indignazione sembra più alto, come se fossero offesi dal fatto che altri popoli piangano e giudichino le vittime di attentati e stragi russe. Nonostante tutto questo, i giornalisti della Novaja Gazeta e delle altre poche testate libere continuano a lavorare e sperare di poter riuscire a risvegliare le coscienze russe, restando alla loro scrivania, senza scoraggiarsi e pensare di abbandonare il loro lavoro ; nonostante molti giornalisti sono consapevoli di essere seguiti e pedinati, i giovani ancora si appassionano a questo mestiere ed entrano nella redazione dei giornali speranzosi di poter raccontare la verità sulla politica russa, sulla forte corruzione che la corrode e sulle aree della Russia come il Caucaso e la Cecenia dove i diritti umani sono totalmente calpestati (anche se ora il giornale ha deciso di non mandare più nessuno in zone quali la Cecenia per non rischiare di lasciare un’altra scrivania vuota nella redazione): i giovani, grazie al supporto di Internet, diffondono nuovi contenuti liberi e grazie al coraggio di alcuni giornali si formano le nuove leve. I due giornalisti ci lasciano ricordandoci di non smettere mai di fare domande scomode, di provare sempre a mettere in difficoltà le alte cariche, di informarsi su come i processi sulle morti di questi martiri del giornalismo si stanno evolvendo, perché in questo modo “anche se non si riuscirà ad arrivare alla soluzione”, conclude Vitaly Yaroshevski, “almeno gli faremo passare il resto della giornata con un nervoso mal di stomaco, perché a loro non piace essere messi in difficoltà”.
L’uovo di Fabergè è un oggetto di grande valore e dalla storia affascinante, i cui misteri ancora fanno interrogare gli esperti d’arte e i collezionisti. Fu una realizzazione di gioielleria ideata presso la corte dello zar di Russia ad opera di Peter Carl Fabergé, della omonima compagnia.
La storia delle uova Fabergé inizia in Russia nel 1885 con quello che sembrava essere un normale dono, commissionato dallo zar Alessandro III di Russia come sorpresa di Pasqua per la moglie Maria Fëdorovna – un uovo di smalto bianco – ma che nascondeva un tesoro. Aveva una struttura a scatole cinesi o a matrioske russe, e una volta aperto infatti, l’uovo rivelava una serie di sorprese: in primo luogo, un solido tuorlo d’oro al centro, che a sua volta si apriva per rivelare una gallina d’oro multicolore con occhi di rubino, che custodiva una replica in oro e diamanti della corona imperiale, al cui interno si nascondeva un piccolo ciondolo di rubino appeso a una catena. La zarina fu così contenta di questo regalo che Fabergé fu nominato da Alessandro “gioielliere di corte”, e fu incaricato di fare un regalo di Pasqua ogni anno da quel momento in poi, con la condizione che ogni uovo doveva essere unico e doveva contenere una sorpresa. Il cosiddetto Hen Egg fu l’inizio di una serie di doni pasquali dallo Zar Alessandro III e, dopo la sua morte, da suo figlio, Nicola II, alle loro mogli fino al 1916.
Lo zar Nicola incaricò il gioielliere Peter Carl Fabergé con il titolo di “orafo speciale per la corona imperiale”, e gli venne lasciato campo libero nel design delle uova. Da un motivo ad ago ad una rete delicata, non si risparmiò mai: non solo l’esterno di ciascun uovo era una complessa opera d’arte, ma gli interni erano ancora più elaborati, ciascuno con una sorpresa nascosta. Nacque così la tradizione delle uova di Pasqua con i doni nascosti. La leggenda ha attirato un seguito di collezionisti e storici in tutto il mondo. In America, una delle collezioni più estese è quella di Lillian Thomas Pratt, che negli anni ’30 ha accumulato cinque uova Fabergé, pagandole fino a 16.500 dollari l’una. Alla sua morte nel 1947, lasciò in eredità la collezione al Virginia Museum of Fine Arts.
Fra il 1885 e il 1917 furono realizzate ben 52 di queste uova di Pasqua in oro, preziosi e materiali pregiati, ogni anno all’approssimarsi della festività.
A partire dal 1895, anno in cui morì Alessandro III e salì al trono il figlio Nicola II vennero prodotte due uova ogni anno, uno per la nuova zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova e uno per l’imperatrice madre. Nessun uovo venne fabbricato nel 1904 e nel 1905 per via delle restrizioni imposte dalla Guerra russo-giapponese.
La preparazione delle uova occupava un intero anno: una volta che un progetto veniva scelto, una squadra di artigiani lavorava per montare l’uovo. I temi e l’aspetto delle uova variavano ampiamente. Per esempio, sulla parte esterna, l’uovo del 1900 (dedicato alla costruzione della Transiberiana) era decorato da una fascia grigia metallica con inciso il programma dell’itinerario della ferrovia e all’interno aveva un treno in oro in miniatura.
A partire dal 2006, appena 21 uova erano ancora in Russia, per la maggior parte in esposizione nel Palazzo dell’Armeria del Cremlino di Mosca. Nel mese di febbraio del 2004 l’imprenditore russo Viktor Vekselberg acquistò nove uova precedentemente possedute dall’editore americano Forbes, facendole ritornare così in Russia. Altre collezioni più piccole sono nel museo delle belle arti della Virginia, nel museo di New Orleans dell’arte e in altri musei nel mondo. Quattro uova sono nelle collezioni private mentre sette mancano ancora. Nuovamente, dal 1989 al 2009, sono state prodotte, su licenza, altre uova Fabergé dalla fabbrica di gioielli Pforzheim Victor Mayer.
Il nobiluomo russo Alexander Kelch ha commissionato a Fabergé sette uova di Pasqua gioiello, una ogni anno dal 1898 al 1904, per regalarle alla moglie Barbara. Furono realizzate sotto la supervisione di Michael Perkhin, all’epoca secondo mastro orafo della Fabergé, che si ispirò a quelle imperiali. Le sette uova Kelch sono altrettanto belle, se non addirittura più sontuose, di quelle della serie imperiale, hanno maggiori dimensioni e con tutta probabilità, costarono molto di più. La moglie Barbara le vendette nel 1920.
Attorno alle uova Fabergé ruota la trama di numerose opere. Tali oggetti o loro imitazioni compaiono inoltre in diversi film, cartoni animati, fumetti e videogiochi. In opere come Ocean’s Twelve (2003) viene inscenato il furto dell’Uovo dell’incoronazione. Il tema del furto di un uovo viene riproposto anche nell’episodio L’uovo di mezzanotte del serial televisivo La signora in giallo, nell’episodio Le allegre comari di Rossor (2005) della serie i Simpson, nel film d’animazione Detective Conan – L’ultimo mago del secolo (1999), trasposto poi come fumetto, nel film Quasi amici – Intouchables, nel film The Code (2009), nelle serie Le avventure di Hooten & the Lady, nella terza stagione della serie Peaky Blinders. White Collar e nel videogioco Maize. Ne Il Segreto Francisca Montenegro regala un uovo Fabergé a Maria Castaneda. Nel terzo episodio del videogioco Batman: The Telltale Series è possibile intravedere un uovo in casa di Selina Kyle. Nel terzo episodio della quarta stagione di Riverdale, Veronica consegna 4 uova fabergè ad Archie dal valore di 250.000 dollari. Nel capitolo 5 della prima stagione Lupin (Netflix) ne viene rubato uno a casa di una ricca donna.
“L’Hen Egg è particolarmente significativo, in quanto è stato il primo uovo di Pasqua imperiale creato dal mio bisnonno, Peter Carl Fabergé, perché lo zar Alessandro III lo donasse a sua moglie, l’imperatrice Maria Feodorovna, nel 1885“, spiega Sarah Fabergé. “Lo zar stesso ha partecipato al progetto chiedendo che la sorpresa finale fosse ‘un piccolo uovo pendente di qualche pietra preziosa’, ed è stato così ben accolto che ha aperto la strada a ulteriori commissioni da parte della famiglia imperiale e di altri con una passione per gioielli e oggetti raffinati. Chissà, forse senza questo uovo, le cose potrebbero essere state molto diverse”. In mostra al Fabergé Museum.
“The Pelican Egg si apre come una fisarmonica per rivelare otto pannelli ovali incernierati con miniature di orfanotrofi e istituzioni educative, che commemora il loro centesimo anniversario e di cui l’imperatrice vedova era presidente”, dice Fabergé. “Il pellicano che sormonta l’uovo è un simbolo della carità cristiana, in quanto offre il proprio sangue per salvare i suoi piccoli – un simbolo di quanto seriamente la famiglia Romanov prendesse la sua responsabilità nei confronti del popolo russo.” Donato dallo Zar Nicola II a sua madre, l’Imperatrice Maria Feodorovna. In mostra al Virginia Museum of Fine Arts.
L’uovo del rinascimento invece, del 1894, “doveva essere l’ultimo uovo commissionato da Alessandro III prima che Nicola II assumesse la tradizione pasquale di regalare uova Fabergé a sua moglie e sua madre”, spiega Josina von dem Bussche-Kessell, direttore delle vendite globali di Fabergé. “Questo pezzo è particolarmente intricato e delicato, con un mix eccezionale di materiali e colori. L’uovo era fatto di agata bianca e coperto da un delicato traliccio che collegava singoli fiori con rubini, diamanti e perle incastonati . Ai lati dell’uovo c’è una maschera da leone con manici dorati. Purtroppo, la sorpresa dell’uovo è andata perduta, ma si ritiene che contenesse delle perle.” Donato dallo Zar Alessandro III a sua moglie, l’Imperatrice Maria Feodorovna. Fabergé Museum.
“Dopo la prematura scomparsa di Alessandro III, Nicola continuò l’importante rapporto con la Casa Fabergé e commissionò il suo primo uovo nel 1895”, afferma von dem Bussche-Kessell. “L’uovo di bocciolo di rosa, in onore della nuova imperatrice Alexandra Feodorovna e del suo amore per le rose, presenta una bellissima rosa smaltata all’interno: le rose gialle erano all’epoca le più preziose nella sua terra natia, la Germania. Il tema è considerato anche un tributo romantico allo status di neo-sposi, simboleggiato dal ‘guscio’ esterno in smalto rosso dell’uovo e dalla freccia di Cupido con diamanti con taglio a rosa. In cima c’era anche un piccolo ritratto di Nicola II. Si diceva che ci fossero due piccole sorprese all’interno del bocciolo di rosa giallo – una piccola corona e una goccia di rubino – ma sono andate perse durante la Rivoluzione russa”. Donato dallo Zar Nicola II a sua moglie, l’Imperatrice Alexandra Feodorovna. In mostra al Fabergé Museum.
“Sia Peter Carl Fabergé che l’imperatrice Maria Feodorovna adoravano i fiori”, racconta Fabergé. “Puoi quasi sentire l’odore dei gigli mentre guardi questo uovo, ma questi sono creati con perle e diamanti con taglio a rosa, e foglie d’oro smaltate di verde” Per quanto riguarda la sorpresa: “C’è un solo bottone di perle sul lato di questo uovo rosa smaltato con tecnica guilloché – quando viene premuto, la corona si alza per rivelare tre ritratti in miniatura dello Zar Nicola II e delle sue figlie, Olga e Tatiana.” Donato dallo Zar Nicola II a sua moglie, l’Imperatrice Alexandra Feodorovna. In mostra al Museo Fabergé.
Ogni singolo uovo imperiale ha un valore di svariati milioni. Eppure, alcune tra le 52 uova Fabergé sono andate perdute negli anni.
L’ultimo ritrovamento è avvenuto nel 2014, ed è capitato ad un antiquario del Midwest. Si tratta dell’uovo imperiale creato nel 1887: un gioiello costituito da un uovo in oro giallo poggiato su un piedistallo con piedi a zampa di leone, contenente come sorpresa un orologio da signora Vacheron Constantin con un quadrante in smalto e un diamante traforato incastonato su mani d’oro. Dopo questo ritrovamento, sono ancora sei le uova imperiali Fabergé disperse.
Il sarafan (in russo: сарафан [sarafan]) è un abito tipico russo apparso nel XIV secolo e usato dalle donne e ragazze contadine fino al XX secolo. Tradizionalmente veniva per lo più inossato nelle regioni centrali e settentrionali del paese e c’erano grandi varietà stilistiche anche tra province vicine. Nella regione di Arkhangelsk ad esempio, la preferenza veniva data ai sarafan a forma di trapezio in seta, tinta unita o con un motivo floreale; in seguito è stato utilizzato, ovunque, come abito tradizionale per le feste popolari. Le donne dei ceti superiori smisero invece di utilizzare questo abbigliamento già dal XVIII secolo, come conseguenza della politica di rinnovamento imposta da Pietro il Grande.
Gli storici hanno opinioni contrastanti sulle origini del sarafan. Secondo alcuni, la parola stessa ha originiiraniane: deriva dalla parola persiana che significa “vestito dalla testa ai piedi“. Altri l’hanno associato alla cultura indiana sempre per l’etimologia della parola stessa: una parte della radice della parola “sarafan” – “sara” potrebbe derivare dalla parola indiana “sari” che significa “pezzo di stoffa“. La prima menzione del sarafan come abbigliamento la troviamo nel 1376 nella Cronaca Nikon o Cronaca del Patriarca (una raccolta di cronache slave orientali intraprese alla corte di Ivan il Terribile a metà del XVI secolo, che prende il nome dal Patriarca di Mosca e da tutti i Rus’ Nikon, che ne possedevano una copia).
Fino al XVII secolo però, sia le donne che gli uomini indossavano il sarafan, che all’epoca era una lunga veste di lino con le maniche lunghe. È stato solo all’inizio del XVIII secolo che il sarafan è divenuto un abito esclusivamente femminile, trasformandosi in un vestito lungo con spalline sottili. Veniva portato principalmente come un lungo abito e veniva addobbato con trecce, ricami e altre forme di decorazione, che erano il simbolo dello status sociale della donna e della sua capacità finanziaria. Indossato insieme al sarafan non poteva mancare il classico kokoshnik decorato con dorature, perle o argento, o in alternativa il fazzoletto legato sotto al mento.
Si tratta di un abito colorato, con grandi decorazioni e sempre fatto a mano. I sarafan più semplici sono neri o a fiori, di uso quotidiano, ma esistono versioni più eleganti, destinate alle occasioni speciali, in broccato. è come un jumper sciolto e lungo indossato sopra una lunga camicia a maniche ampie di lino allacciata con una cintura, ed è formato da un corpetto aderente all’addome e una più ampia gonna lunga fino ai piedi. Oggi viene portato senza camicia e in una versione più moderna come abito estivo. I modelli più diffusi di sarafan erano, da tradizione, tre: a forma di trapezio, quello dal taglio dritto e quello con corpetto. Si distinguevano sostanzialmente non tanto nel loro aspetto, quanto nel modo in cui venivano fatti. Il sarafan a forma di trapezio veniva prodotto unendo due pezzi di tessuto con ampi inserti sui lati, con il risultato di una forma apparentemente semplice, che dava l’impressione che la donna fluttuasse piuttosto che camminare. Un tempo, nel tardo XVIII secolo, una versione di questo sarafan tradizionale conquistò popolarità: era dotato di larghi nastri con bottoni frontali, che servivano non solo per fissare il vestito, ma anche come decorazione quando l’abito era ornato di trecce o di nastri, mentre i bottoni potevano anche essere fatti di oro. Il secondo tipo era realizzato con due pezzi di tessuto dal taglio dritto uniti e chiusi alla sommità per adattarsi alla figura della donna. Il sarafan con corpetto infine, ha rappresentato uno dei modelli più alla moda e attuali: formato da una gonna con un corpetto attillato che aveva un rivestimento, chiamato podoplyoka (in russo: подоплёка), che letteralmente significa “sfondo” e nel russo moderno viene utilizzato per indicare un significato apparentemente nascosto.
Il colore del sarafan dipendeva dall’evento nel quale doveva essere indossato: se si trattava di vestiti per tutti i giorni, si indossava un sarafan di colore blu generalmente fatto in casa e chiamato sinyukha , se invece doveva essere indossato per occasioni particolari, come un matrimonio, era solitamente rosso, fatto di seta e adeguatamente decorato (e prendeva il nome di kumashnik).
Con la politica di Pietro il Grande (contrastata successivamente alle imprese di Caterina) e ancor di più dopo la rivoluzione bolscevica, il sarafan fu visto come un residuo indesiderato della Russia imperiale e quindi venne vietato. Riprese vita negli anni Cinquanta, quando le riviste di moda sovietiche iniziarono a raffigurare una versione moderna del tradizionale sarafan. Per il lavoro, le donne sovietiche potevano indossare abiti asessuati ma senza maniche realizzati in tessuti spessi e indossati sopra la camicia, un maglione o una maglietta, mentre la sera o nel fine settimana potevano scegliere versioni più leggere realizzate in tessuti comodi e in colori più brillanti e decorati.
È con gli anni Sessanta che il sarafan, in una versione ovviamente moderna per il tempo, riprese effettivamente vigore: le ragazze e le donne indossavano un tubino corto e dal taglio dritto che poteva essere accompagnato da una camicetta o un dolcevita. Le riviste di moda sovietiche erano piene di scamiciati stilizzati molto simili al tradizionale sarafan, decorati con trecce, ricami e accessoriati molto appariscenti. Negli anni Settanta poi, nella moda sovietica erano molto popolari gli stili etnici e molte donne indossavano lunghi scamiciati dai colori brillanti. Nei primi anni Ottanta, andava di moda una versione del sarafan fatta di calicò dai colori vivaci, con una gonna fluente o voluminosa. Attualmente qualsiasi donna russa ha almeno uno scamiciato nel suo guardaroba, e i modelli più popolari sono le versioni estive del tradizionale sarafan di qualsiasi forma o stile. Come eredità degli antenati, questo costume continua ad apparire soprattutto in chiese, teatri, studi di danza, festival.
Dirndl
Abiti simili oggigiorno, si trovano in Germania e principalmente in Baviera e sono il Dirndl ed il Traеgerkleid.
Il kokòshnik (in russo: коко́шник [kokóschnick]) è un copricapo tradizionale russo indossato da donne e ragazze per accompagnare il sarafan (abito tradizionale russo apparso nel XIV secolo e usato dalle donne e ragazze contadine fino al XX secolo; in seguito utilizzato solo come abito tradizionale per le feste popolari). La tradizione del kokoshnik risale al X secolo nell’antica città russa di Veliky Novgorod; si diffuse dapprima nelle regioni settentrionali della Russia ma divenne molto popolare in tutto il paese tra XVI e XIX secolo. È ancora oggi una parte importante del costume da danza russo e della cultura popolare al punto da aver ispirato anche la cosiddetta architettura kokoshnik (decorazioni utilizzate nell’architettura della chiesa russa dal XVI secolo, e particolarmente popolare nel XVII secolo).
Kokòshnik
Architettura Kokòshnik
Sarafan nero
Storicamente era il copricapo usato dalle donne sposate, anche se spesso le serve di casa indossavano copricapi simili, ma aperti sul retro, chiamati povyazka. La parola kokoshnik racchiude una gran varietà di copricapi indossati in tutta la Russia, inclusi i tipici cappelli cilindrici di Veliky Novgorod, i cappelli a due punti detti kika di Vladimir, la kika triangolare di Kostroma, i piccoli cappelli di perline di Kargopol ed i kokoshnik scarlatti di Mosca. Il kokoshnik non è, inoltre, da confondere con i venets: questi non coprono i capelli, ma incorniciano solo la testa. La principale caratteristica del kokoshnik sta nell’alta cresta, simile a quella di un gallo.
Le donne sposate, nella Rus’ i Kiev, dovevano coprire il capo e nascondere i capelli, difatti, alla cresta rialzata del kokoshnik (che solo loro potevano indossare) si fermava una stoffa, che copriva la testa e talvolta anche il collo. il kokoshnik sostanzialmente serviva ad evidenziare lo stato civile delle donne: una lunga treccia indicava che la ragazza era da marito; se la natura non aveva dotato la fanciulla di bei capelli forti, si ricorreva a extension di crini di cavallo. In questo modo si voleva dimostrare di essere in salute e di poter dare alla luce molti bambini. Le donne sposate, invece, si facevano due trecce e le fermavano attorno alla testa coprendole con il kokoshnik.
Mentre in passato il kokoshnik variava molto nello stile, attualmente si è unificato nella forma di una cresta alta con copricapo, fissata sul retro da lacci stretti. La cresta può essere adornata con perle e decorazioni in oro, o più semplice con fiori e piante, mentre il resto del capo è decorato solitamente con perle. Il kokoshnik, inoltre, è spesso combinato alla treccia russa (una tipica acconciatura la cui storia risale alla Rus’).
Essendo spesso di ottimo tessuto e adornato con perle e decorazioni costose, veniva conservato con grande attenzione e generalmente lo si indossava solo per le grandi feste, pochi giorni all’anno, e passava in eredità di generazione in generazione. Nella vita di tutti i giorni, infatti, le donne portavano il povòjnik, un berretto morbido attorno al quale veniva fermato un fazzoletto che raccoglieva e nascondeva i capelli.
La parola kokoshnik si trova per la prima volta nei documenti del XVI secolo, e viene dall’antica parola slava kokosh (in russo: кокош), che significa “gallo” e da qui deriva la somiglianza della cresta del khokoshnik con quella del gallo. Ad ogni modo, i primi copricapi che corrispondono alla descrizione dei moderni kokoshnik risalgono al X-XII secolo e sono stati ritrovati in alcune sepolture di Veliky Novgorod. Pietro il Grande poi, per motivi prettamente politici, combatté le abitudini della Russia dei boiardi e alle loro signore vietò di portare il kokoshnik introducendo la moda degli abiti da signora occidentali e del décolleté, così in quell’epoca il kokoshnik iniziò ad associarsi non più all’alta società, ma solo alle donne dei mercanti e dei contadini. Grazie a Caterina la Grande, che salì sul trono nel 1762, il kokoshnik venne riportato in auge come elemento fondamentale ai balli in maschera, e lei stessa posò quasi sempre con il kokoshnik indossato per i ritrattisti di corte. Al tempo della guerra contro Napoleone poi, e per tutto il XIX secolo, l’alta società russa, in precedenza francofona e francofila, decise di ritornare ai costumi nazionali, e per tutto il corso del secolo si possono trovare ritratti di dame di corte e imperatrici in kokoshnik. Durante la ripresa dello stile tradizionale russo, infatti, le tiare e i diademi dell’aristocrazia andarono a riprendere proprio le forme del kokoshnik tradizionale, anche se si ispirarono talvolta alla moda del rinascimento italiano ed al french hood. Il kokoshnik così, rimase in utilizzo corrente e tradizionale presso le classi abbienti nelle occasioni speciali perlomeno sino alla Rivoluzione russa. Ogni regione della Russia aveva la sua variante locale del kokoshnik: a forma cilindrica, a mezzaluna, a triangolo, simili a degli elmetti o a forma di sella. Dopo, furono gli émigré a introdurre il kokoshnik nel resto delle mode europee.
Nel 1896, un editto dello zar Nicola II riformò l’antico sistema di punzonatura dell’argento, introducendo il nuovo punzone che prese, non a caso, il nome di Kokoshnik dal tradizionale copricapo raffigurato sulla testa femminile volta a sinistra che appare al suo centro.
La tradizione ornamentale del Kokoshnik era di grande importanza: al centro del copricapo era solitamente disegnata una “rana” stilizzata, che simboleggiava la fertilità, sui lati c’erano figure di cigni, che per lungo tempo erano il simbolo della fedeltà degli sposi, mentre sul retro l’albero della vita era posto sotto forma di un cespuglio, i cui rami dovevano rappresentare la futura generazione. Infine uccelli, frutti e altri simboli significativi erano collocati su ciascun ramo.
Nel 1903 Nicola II dette un ballo in maschera per festeggiare l’anniversario della dinastia Romanov e le dame erano tutte in sarafan e kokoshnik. In questa occasione, i diversi abiti vennero utilizzati per illustrare le carte da gioco in “stile russo”, messe in commercio nel 1913, in cui, Nicola II era il re di cuori.
Regina Maria di Romania, dipinto di Philip de László
Lo stile apparve chiaro nell’abito di nozze di Mary di Teck, futura regina consorte del Regno Unito, nel 1893. La regina Maria di Romania invece, indossava spesso una tiara appositamente creata per lei da Cartier a riprendere le forme di un kokoshnik russo (come testimonia il suo ritratto del 1924 dipinto da Philip de László). Mentre uno degli abiti della senatrice Padmé Amidala nella saga di Star Wars è basato sul costume tradizionale russo e presenta sul capo un kokoshnik.
Pademè Amiala
Anche la ballerina Anna Pavlova si esibiva con il kokoshnik in testa nei Ballets Russes di Diaghilev, e diverse cantanti d’opera e attrici furono riprese nei giornali dell’epoca con il copricapo russo. Anche la star del pop, Jennifer Lopez, si è fatta fotografare con il copricapo tradizionale per la versione russa di “Harper’s Bazaar” nel 2014. Anche la collezione Chanel Pre-fall 2009 è diventata famosa per essersi ispirata al folk russo ed aver reinventato il Kokoshnik.
Nel X secolo la Russia adottò la religione cristiana, che in alcune regioni dovette essere imposta con la forza militare, perché i popoli slavi erano restii ad abbandonare i radicati culti pagani della loro tradizione. Benché le principali divinità pagane furono bandite, gli spiriti e le credenze locali non scomparvero mai del tutto: il domovoy, spirito domestico del folklore slavo, è proprio uno di questi.
In base ad un’antica leggenda, quando il Diavolo e tutti i suoi demoni vennero espulsi dal cielo, alcuni spiriti caddero nei meandri del mondo sotterraneo, dove hanno continuato a vivere: alcuni nei boschi, altri nelle acque, nell’aria e taluni nelle case.
Il domovoy (in russo домовий [domovoj] letteralmente significa “colui che sta in casa”) è nella mitologia slava una creatura maschile, spesso di piccole dimensioni e coperta di peli, che staziona tra le mura domestiche e protegge l’unità familiare. Ha l’aspetto di un nano dal viso decrepito pieno di rughe e i capelli bianchi; veste con una camicia rossa ed una cinta azzurra, o viceversa. Alle volte però può essere vestito di bianco e avere l’aspetto di un fanciullo.
In quanto nume tutelare, il domovoj era tenuto in grande considerazione dagli abitanti della casa e trattato con ogni cortesia. ll nome “domovoy” deriva dalla parola slava “dom” che significa “casa”, e non è un caso che lui sia infatti il protettore della casa, che spesso veniva considerato il vero padrone della casa.
Il domovoy è il più importante degli spiriti russi: come il brownie britannico, vive nelle case e può aiutare nelle faccende domestiche in cambio di una piccola ricompensa commestibile. Appartiene alla casa di una determinata famiglia e rappresenta lo spirito degli antenati – ecco perché è spesso chiamato “де́душка”, ovvero “nonno”, e si dice che abbia centinaia di anni. In qualità di antenato, il domovoy ha a cuore i propri familiari e li aiuta, anche se talvolta può rubare loro qualcosa in caso di bisogno. Si credeva inoltre che la prosperità e il benessere non potessero esistere in una nuova casa fin tanto che il capo della famiglia non morisse per divenire così il suo spirito guardiano e protettore (cioè il domovoy).
Il Domovoy vive sotto la stufa, nel luogo più umile della casa, ed è sempre presente anche se si fa vedere solo di rado. Di norma, infatti, il domovoy rimane invisibile, si rivela solo in strani rumori, i suoni dei passi in silenzio, sospiri e talvolta anche mormorii.
Il domovoy si incontrava spesso di notte, quando cercava di “soffocare” le persone nel sonno, non per far loro del male, ma per avvertirle che in casa o nella famiglia c’è qualcosa che non andava. Secondo un’altra credenza, peer avvertire di una prossima sventura, il domovoy di notte avrebbe accarezzato il volto dei dormienti con la sua mano coperta di peli: se questa fosse stata calda, avrebbe simboleggiato un buon presagio; se fredda invece, segno di imminente negatività. Se la famiglia avesse ignorato i suoi avvertimenti sarebbe potuto anche divenire aggressivo: lanciare oggetti per la casa, ferire il bestiame o fare confusione. Per evitare questo occorreva seguire delle regole: quando si lascia la casa per un periodo prolungato bisogna “sedersi prima della partenza” – ovvero, una volta fatte le valigie, restare per un momento in silenzio per salutare lo spirito domestico. Di notte non bisognerebbe lasciare posate o cibo sul tavolo, perché il domovoy potrebbe servirsene per i propri scopi, o contaminare il cibo. In casa è vietato imprecare, soprattutto durante l’ora dei pasti: il domovoy, come tutti gli spiriti, odia e teme il turpiloquio. Anche le liti e le discussioni lo fanno arrabbiare, così come il disordine.
Allo stesso modo della sua controparte femminile (e malvagia), ovvero la kikimora, il domovoy ama starsene sotto la soglia di casa o dietro la stufa: un pezzo di pane e sale era sufficiente a placarne le ire in caso di comportamenti scorretti o poco virtuosi da parte dei famigliari. Se, tuttavia, nella casa continuava a regnare il disordine e la negligenza, le ripercussioni messe in atto dallo spirito potevano diventare sempre più gravi: dal semplice tintinnare degli oggetti ai rumori molesti per arrivare ai danni alle cose e alle persone stesse, secondo una fenomenologia che assomiglierebbe in tutto a quella dei poltergeist.
Kikimora
Oltre a poteri psicocinetici aveva la facoltà di trasformarsi in vari animali (soprattutto cani e gatti) e di fornire presagi: tirava i capelli ad una donna per metterla in guardia da un uomo violento, urlava e gemeva per avvertire dell’arrivo di una sventura. Se lo si udiva piangere si era sicuri dell’imminenza di un lutto, se invece rideva si preannunciava un futuro prospero mentre se si udiva risuonare un pettine ci sarebbe stato presto un matrimonio.
Il 30 marzo di ogni anno è un giorno particolare per i domoviye, perché in quella data cambiano pelle (forse ricordo di una più ancestrale fase ofidica) e sono particolarmente suscettibili. Il 28 gennaio invece è il giorno in cui il domovoy cucina la sua speciale polenta, che offre a tutti gli abitanti della casa.
Ancora nel XIX secolo, la credenza nel domovoy era largamente diffusa: la maggior parte dei contadini russi dichiaravano di averne visto uno e nessuno osava chiamarlo con questo nome, preferendo usare attributi di maggior rispetto quali “signore”, “lui”, “nonno”. Quando la famiglia si trasferiva bisognava invitarlo nella nuova abitazione per evitare che, restando in quella vecchia, il domovoy entrasse in conflitto con la famiglia (e relativo domovoj) dei nuovi inquilini.
Gli etnologi moderni credono che il domovoy abbia sostituito altri guardiani slavi antichi come Coira. Il nome Coira è ancora oggi usato tra i russi come augurio di protezione dagli spiriti maligni “chur menya!”, si dicono, che letteralmente significa “coira, proteggimi!”.
Ancora oggi, in alcune famiglie, la tradizione del domovoy è molto sentita. L’unica cosa che oggi il domovoy non fa più è soffocare le persone, e questo perché le stufe di un tempo non sono più in utilizzo: pare infatti, che il “soffocamento” causato dal domovoy non fosse altro che un modo con cui i russi spiegavano l’avvelenamento da monossido di carbonio, che nelle case prive di camino era molto comune. Con il passare degli anni le creature della tradizione sono destinate a scomparire, ma rimarranno sempre una parte importante della cultura russa.
L’angolo rosso (in russo : красный угол, [krasnyj ugol]) è, nelle case russe, un piccolo spazio dedicato al culto delle icone sacre. Si trova solitamente nell’angolo nord o sud-est di una stanza, o anche sulla parete rivolta ad est della casa, questo perché l’est è la direzione di preghiera dei Cristiani Ortodossi, che rivolgono le proprie preghiere per il ritorno di Gesù verso il sole nascente, simbolo del Figlio del Padre. Per enfatizzare ulteriormente la metafora, si è soliti posizionare delle candele accese davanti alle icone sacre.
La tradizione vuole che la direzione sia marcata con una croce, non vuota, con Cristo su di essa, e che nel krasnyj ugol siano presenti sia la rappresentazione di Cristo, sia quella del Cristo in gloria. Non di rado, nei tempi antichi, era situato alla destra di una stufa, che tuttavia risultava un complemento d’arredo non sempre presente nelle case russe dei ceti inferiori. Spesso questo piccolo altarino sacro è posizionato in un angolo per concedere al pregante tutta la concentrazione necessaria durante i momenti di preghiera, ed eliminare così ogni fonte di distrazione.
In inglese si traduce non solo come “angolo rosso”, ma anche come “angolo onorevole” o “angolo bello”, a seconda della fonte, questo perché la parola russa per rosso, “krasni”, era in passato usata anche per descrivere qualcosa di bello, buono o onorevole. Oggi, “krasni” è usato per indicare qualcosa che è di colore rosso, mentre “krasivi” è la parola russa moderna per “bello”. Tuttavia, molti siti importanti e manufatti culturali riflettono ancora l’uso combinato della parola, e un nome che incorpora questa radice potrebbe ancora essere considerato qualcosa di elevato in stato. In effetti, la parola russa per eccellente – “prekrasni” – condivide la radice “kras” con queste altre parole.
L’angolo subito visibile all’ingresso nelle antiche case slave, in epoca precristiana, era considerato la parte più sacra e spirituale della casa. Determinare quale angolo fosse era abbastanza semplice, poiché anticamente le case erano composte da singole stanze. In Ucraina, ad esempio, il padre di famiglia era incaricato del compito di ministro delle funzioni liturgiche, che celebrava nella propria casa. È da questo particolare compito che deriva il termine “batjuška” (vezzeggiativo di “padre”), appellativo spesso usato dalla servitù per rivolgersi al proprio padrone. Nella sua accezione stretta, specialmente in Russia, questo termine era anche usato in riferimento allo Zar, e successivamente si estese anche al mondo ecclesiastico come riferimento per i preti.
L’angolo principale della casa era inoltre sede di raccolta per la famiglia per i momenti di preghiera comuni e per onorare la memoria dei parenti e conoscenti defunti. Le tradizioni e i rituali sacri legati a questo particolare angolo della casa subirono nuovo slancio con l’introduzione del culto ortodosso; l’angolo divenne un piccolo santuario adornato con icone sacre, reliquie, testi sacri e ornamenti tipicamente ecclesiali. L’importanza di allestire un piccolo spazio sacro per pratiche religiose giornaliere è un fondamento legato alla religione ortodossa, secondo cui la casa è considerabile come un microcosmo di una chiesa. Per i Cristiani ortodossi la casa è il luogo in cui i membri di una famiglia trascorrono la maggior parte delle loro vite, dove apprendono i fondamenti della vita cristiana e dove possono lavorare sulla propria salvezza. In questo particolare angolo della casa, il krasnyj ugol, i bambini venivano iniziati al mondo cristiano mediante la recitazione di preghiere, e dove veniva insegnato loro il rifiuto delle tentazioni della vita e l’importanza della redenzione. Nel periodo rivoluzionario la funzione del krasnyj ugol mutò totalmente. La causa del nuovo significato che l’angolo sacro assunse durante il periodo sovietico è radicabile nella glottologia russa, ed in particolare nella duplice veste di significato del termine krasnyj.
L’ideologia sovietica, nel tentativo di sradicare la superstizione religiosa, adottò l’idea dell’angolo sacro ortodosso in seguito alla morte di Lenin, nel 1924, rinominando tali spazi “Angolo di Lenin” o “Piccolo angolo rosso“. Da essere uno spazio sacro dedicato alle icone ed altri elementi liturgici, l’angolo rosso divenne ostentazione e rappresentazione propagandistica comunista. L’allestimento obbligatorio che questo spazio imponeva, secondo le direttive del partito, era costituito da una raffigurazione del defunto Lenin e striscioni o nastri tipicamente rossi che richiamassero il colore caratterizzante del partito comunista. Sebbene il contenuto dell’angolo rosso fosse differente da casa a casa, generalmente questo spazio poteva essere arricchito da foto di altri leader, premi personali, poster propagandistici, testi o ritratti di varia natura, sculture o busti. L’adozione di uno spazio dedicato al partito divenne obbligatoria negli uffici, nelle fabbriche e nelle case dell’Unione Sovietica: l’intimità dell’antico angolo rosso dedicato al culto diveniva luogo di propaganda pubblico. Poiché il rosso era insito nell’accezione linguistica del termine krasnyj ugol (angolo rosso, appunto), fu semplice per i comunisti incoraggiare l’uso di questo spazio come destinato, in realtà, a simboleggiare il partito comunista. In alcune famiglie, tuttavia, la presenza di mamme o nonne particolarmente devote garantiva la prosecuzione della funzione originale dell’angolo.
Un posto speciale, destinato all ‘”angolo rosso”, in una tradizionale capanna russa era situato in diagonale rispetto a una stufa a legna. Nei tempi antichi, per i russi, la capanna personificava l’intero Universo, c’erano i cieli e la terra (simboleggiati dal pavimento e dal soffitto), i punti cardinali (che erano i muri) e il “mondo inferiore” (la cantina). Inoltre, gli antichi associavano est e sud all’alba, alla primavera, a mezzogiorno, all’estate e alla vita e al calore soleggiati, e al nord e all’ovest con tramonto, inverno e autunno, freddo e morte.
La stufa, simbolo di calore, era il centro della santità nella capanna slava, per questo si crede che nell’antichità l’unico santuario fosse la stufa, e solo più tardi, con l’adozione del cristianesimo, iniziarono ad apparire nelle case russe anche gli angoli rossi. Dopo l’adozione del cristianesimo, le famiglie russe hanno deciso di mantenere le icone. Alcune persone credono ancora nel potere miracoloso delle icone. Da qui diventa chiaro un atteggiamento così attento verso questo luogo della casa. L ‘”angolo rosso” nella casa è sempre tenuto in alta purezza. Tutte le icone situate in quest’area sono decorate con intagli e fiori, c’è anche una lampada con una candela, e addirittura, nei giorni festivi, l’ospite più onorato è seduto vicino all’angolo rosso.
L’arte della sistemazione e determinazione di tale spazio è spesso ereditata dalle generazioni più antiche, motivo per cui per le famiglie che si convertono a tale religione, o anche per non ortodossi che vogliono comunque allestire l’angolo sacro nelle proprie case, può risultare difficile stabilire la posizione ideale. Nell’allestimento tipico di un krasnyj ugol vi sono determinati elementi imposti e altri che variano a seconda della famiglia e della stagione liturgica in corso, i tipici però, sono:
Icona di Cristo
Icona della Theotokos (Cristo con la Madre)
Icona del santo patrono della famiglia
Altre icone simboliche per la famiglia (opzionale)
Lampada di veglia
Libro di preghiera
La Bibbia
Elementi dipendenti dalla stagione liturgica in corso
Incenso
Croce
Corone matrimoniali
Inoltre, nell’allestimento tipico del krasnyj ugol sono inclusi oggetti che variano da persona a persona, ma che, nella maggior parte dei casi, costituiscono complementi fissi nell’arredo di questo spazio tipico. Il primo fra questi è un piccolo tavolo, o un comodino, posto direttamente sotto le icone, sul quale poter collocare e poggiare tutti quegli elementi che non possono essere appesi o riposti in contenitori fissati al muro. La Bibbia, in particolare, la quale trova alloggiamento proprio sul tavolo, deve essere collocata in una posizione d’onore rispetto al restante corredo, in quanto rappresentante il mondo Divino. La stessa Chiesa Ortodossa colloca i Vangeli sull’Altare.
“il samovàr è la cosa russa più indispensabile in tutte le catastrofi e disgrazie, specie in quelle orribili, improvvise e straordinarie”. -F.M. Dostoevskij, L’adolescente –
“Devo bere molto tè o non posso lavorare. Il tè libera il potenziale che assopisce nel profondo della mia anima”. -Lev Tolstoj- che amava così tanto il tè da tenere un samovar sulla sua scrivania.
Se queste sono le premesse circa questo particolare oggetto dalle origi ancora oggi nebulose, capirete bene la sua importanza nella cultura e nella tradizione russa.
Jurga Po Alessi
Un samovar (in russo: самова́р [samovèr]) è un contenitore di metallo tradizionalmente usato in Russia, nei paesi slavi, in Iran, nel Kashmir e in Turchia per scaldare l’acqua. Poiché l’acqua calda è normalmente usata per la preparazione del tè, molti samovar presentano nella parte alta un ripiano atto a sostenere e scaldare una teiera di tè concentrato. I samovar tradizionali sono alimentati a carbone o a carbonella, mentre quelli moderni utilizzano l’elettricità e funzionano come un normale bollitore d’acqua calda. La parola “samovar” si crede derivi dal russo “samo”, ovvero “sé stesso” e “varit” che letteralmente significa “bollire”. Componendo le due parole, il suo significato è “bollire da sé”, il che descrive a pieno il compito del samovar: quello di far bollire in modo autonomo l’acqua al suo interno. Questo oggetto ha una storia lunghissima e negli anni, anche grazie all’arrivo del tè in Russia, ha assunto forti significati sociali e conviviali, tanto da essere considerato il patrono delle famiglie russe, nonché il principe della cerimonia russa del tè.
L’origine del samovar è piuttosto controversa: alcuni sostengono che provenga dall’Asia centrale, mentre altri che sia stato inventato in Russia visto che in Iran non apparve prima del XVIII secolo e la stessa parola “samovar”, universalmente utilizzata, è di origine russa. Vi sono però varie opinioni sull’origine della parola samovar: c’è chi sostiene che derivi dal turco sanabar che significa “bollitore, calderone”, mentre altri ne attribuiscono la discendenza dal tartaro samuwar che significa “bolle da solo”. Nella stessa Russia il suo nome nei primi tempi variava di città in città: a Kursk lo chiamavano samokipec, a Jaroslavl’ samogar, a Kirov samogrej.
Il precursore del samovar, in Russia, fu lo sbidennik (in russo: сбитенник [sbitennik]), un utensile che serviva per preparare lo sbiten (in russo: сбитень [sbiten]), una bevanda calda a base di miele e spezie, conosciuta sin dall’antichità e ideale, ancor più del tè, per assaporarla durante una conversazione tra amici. Uno sbitennik quindi, somiglia a un bollitore munito di gambe e riscaldato da un tubo (ricorda proprio un samovar).
Intorno alla fine del XVIII secolo, un armaiolo russo, Fedor Lisitsyn, aprì una piccola officina a Tula, una cittadina a sud di Mosca, cuore dell’industria bellica russa. Lisitsyn e i suoi due figli, nel tempo libero, progettarono la costruzione in serie del samovar, che fino ad allora veniva realizzato singolarmente dagli artigiani nella regione degli Urali. L’officina di Lisitsyn fu la prima a produrre industrialmente i samovar che ebbero un grande successo, e portarono Tula, negli anni 1830, ad essere la capitale della fabbricazione dei samovar. Durante il XIX secolo l’uso del samovar fu molto popolare nelle grandi città come San Pietroburgo e Mosca tanto da diventare inseparabilmente legato alla cultura russa. Grandi della letteratura russa come Pushkin, Tolstoj, Gogol, Dostoevskij e Chekhov citarono regolarmente il samovar nelle loro opere.
Nella seconda metà del secolo, la fabbricazione dei samovar si diffuse anche a Mosca, San Pietroburgo e in alcune aree industrializzate della Siberia e degli Urali, tuttavia Tula mantenne il suo ruolo di primo piano in questa produzione. Da allora, quattro sono i modelli divenuti tradizionali: cilindrico, a botte, sferico e, senz’altro il più bello, a cratere che ricorda l’antico vaso greco così chiamato.
L’inizio del XX secolo fu segnato da molteplici tentativi di innovazione per l’alimentazione a petrolio, cherosene o benzina, ma non ebbero molto successo sia per il forte odore dei combustibili che per il maggior rischio d’incendio o d’esplosione. Le ferrovie russe ne riconobbero la praticità e, dopo aver prima sperimentato il samovar sulle carrozze lusso della Transiberiana, lo resero ancor più popolare installandolo su tutte le carrozze dei treni a lunga percorrenza. In seguito furono sostituiti gradatamente con bollitori conosciuti in Unione sovietica come Titani (in russo: титан [titan] che letteralmente significa “titano”).
I Titani sono dotati di controlli come il livello dell’acqua e la temperatura e spesso sono inseriti in contenitori esteticamente curati. Normalmente installati all’estremità del corridoio sono a disposizione dei viaggiatori che desiderassero dell’acqua calda durante il lungo viaggio. I tradizionali samovar sopravvivono solo nelle carrozze lusso sotto l’attenta sorveglianza del personale.
Durante la prima Guerra mondiale e i seguenti moti della rivoluzione e della guerra civile il design e la tecnologia furono semplificati e adattati all’uso militare. Tipici di questo periodo sono i samovar cilindrici saldati e privi di decorazioni.
Gli anni Venti e Trenta furono caratterizzati dalla collettivizzazione e industrializzazione stalinista. Le piccole officine che fabbricavano samovar furono integrate in grandi industrie oppure dismesse. La quantità divenne più importante della qualità. Risale a questo periodo la fondazione a Tula della più grande industria per la produzione di samovar: la Štamp (in russo: Штамп [stamp] letteralmente “francobollo”).
Jurga Po Alessi
Jurga Po Alessi
Gli anni ’50 e ‘60 introdussero l’invenzione del samovar elettrico in metallo nichelato. Finiva così il regno fin qui incontrastato del samovar a combustibile solido. Il sottile aroma del fumo lascia il posto ai benefici derivanti dalla facilità d’uso e dalla economicità: si riduce il tempo necessario per la pulizia e per la preparazione del tè, inoltre la nichelatura protegge l’ottone dalla corrosione molto più a lungo. Le famiglie e la ristorazione collettiva adottarono rapidamente la nuova tecnologia, solo le ferrovie rimasero e rimangono fedeli al tradizionale, fumoso samovar a combustibile.
Durante la stagnazione Brezhneviana i samovar non subiscono alcuna modifica, solo in occasione dei giochi olimpici del 1980 ne furono venduti ai visitatori stranieri moltissimi e il samovar ottenne la fama internazionale diventando il simbolo stesso della Russia.
Solo l’ondata capitalistica degli anni Novanta ha riacceso l’innovazione. Personale fuoriuscito dalla Štamp ha fondato nuove società che ora si contendono in concorrenza il mercato proponendo nuove soluzioni.
Un samovar tradizionale può avere un aspetto molto diverso a seconda del tipo: a urna o a cratere, cilindrico, sferico, liscio, dorato o finemente cesellato, ma essenzialmente si tratta di un contenitore metallico munito di rubinetto sulla parte inferiore con all’interno un tubo, sempre metallico, che lo attraversa verticalmente. Il tubo è riempito con del combustibile solido che bruciando scalda l’acqua circostante. In alto un comignolo di 15-20 centimetri ne assicura il tiraggio. La capacità di un samovar varia da un litro a 400 litri. Una volta acceso, la teiera posizionata in alto è scaldata dai gas caldi in uscita. Nella teiera si prepara lo заварка ([zavarka] che significa tè), molto concentrato che viene servito diluito con il кипяток ([kipjatok] ovvero acqua bollente).
Qualunque combustibile che bruci lentamente come la carbonella o le pigne secche è adatto. In passato quando non era utilizzato, era mantenuto caldo su fuoco lento, per essere rapidamente ravvivato, con l’aiuto di un mantice, al momento del bisogno. Il samovar era importante in ogni famiglia russa: oltre ad essere un’economica fonte d’acqua calda sempre disponibile rappresentava il focolare domestico. Ai nostri giorni il samovar è ormai associato a una nostalgica e vecchia Russia.
come riportato da Jurga Po Alessi (nel suo bellissimo blog “Prima Infusione”) gli autori Glenn Randall Mack e Asele Surina riassumono le varie teorie dell’origine di Samovar in tre ipotesi:
anzitutto che sia un adattamento della pentola mongola, hot pot, utilizzata per preparare le zuppe; i russi hanno semplicemente chiuso la ciotola per formare un grande recipiente per contenere acqua bollente e hanno aggiunto un beccuccio sul fondo per erogare l’acqua calda.
Jurga Po Alessi
Che sia stato portato da Pietro il Grande dall’Olanda. Tra l’altro, la fonderia di Tula fu costruita proprio dagli olandesi nel 1632.
È arrivato con la Chiesadi Bisanzio, che sin dal X secolo ha esercitato un’enorme influenza sulla cultura russa, dalla religione all’arte e all’ambito amministrativo.
Intorno al samovar hanno indubbiamente girato e sono nate tante storie che hanno dato vita ad altrettante piccole curiosità:
Samovar anzitutto è convivialità, ma non solo. Esistono piccoli samovar che possono contenere, in volume d’acqua, poche o anche una sola tazza da tè, che vengono chiamati samovar egoisti o samovar tête-à-tête. Il più piccolo del mondo è stato costruito da Nicolai Aldunin ha una grandezza di 1,2 mm, costituito di 12 parti e il solo materiale usato è l’oro.
Russia Beyond
Il più grande invece, si trova in Ucraina, attualmente in funzione nella stazione di Charkiv. Pesa più di tre quintali, alto 1,80 m contenente 360 l d’acqua e può servire fino a 2.200 persone.
Books of record in Russia
Non c’è limite al lusso, il samovar è di per sé un oggetto costoso, ma tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900, il gioielliere Carl Fabergé costruì il samovar più prezioso al mondo: un gioiello in argento e oro che ha toccato il prezzo di 274.400 sterline e che oggi ha valore inestimabile.
Venivano venduti a peso: Il peso era direttamente proporzionale alla qualità del samovar: più pesante era la caldaia, maggiore era la qualità del prodotto stesso, giacché le pareti spesse indicano una maggior durata del calore dell’acqua e resistono a urti e ammaccature.
Nell’Unione Sovietica di Stalin, gli ex soldati rimasti mutilati venivano chiamati samovar per la macabra somiglianza che evocavano.
Vladimir Lenin dichiarò, riguardo la città di Tula, quanto segue: “Il significato della città di Tula per la nostra repubblica è enorme, ma la gente che ci vive non è dei nostri”. Frase legata al fatto che i produttori di Tula vivevano molto bene costruendo e vendendo i samovar e quando gli fu imposto di costruire armi gratuitamente per i rivoluzionari non dimostrarono l’entusiasmo che Lenin si aspettava.
Esistono anche molti modi di dire, in Russia, che vedono il samovar protagonista. Uno dei più conosciuti, che esprime a pieno l’importanza sociale e relazionale del samovar, lo si utilizza per invitare gli amici a rimanere ancora nella casa ospitante: “Il samovar”, infatti, “sta bollendo, ordina di non andare via”.
A noi occidentali la parola “dacia” fa pensare ad una nota marca di autovetture, ma per i russi invece è un piccolo angolo di paradiso fuori dal caos cittadino. La dacia (in russo: дача [dača]) infatti, è un tipo di abitazione russa situata in campagna e di solito posseduta dagli abitanti delle grandi città che la usano per trascorrervi le vacanze o per affittarle ad altri villeggianti.
La gran parte dei russi residenti in città vive in appartamenti siti in squallidi condomini dell’era sovietica, spesso costruiti tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta durante la leadership di Nikita Krusciov e oggi indicate con il soprannome, non a caso, di хрущёвка [khrushchevka] (o a volte Khrushchoby dalla fusione delle parole Krusciov e trushchoby (in russo трущобы che significa “bassifondi”). Sono molto comuni in Russia e diffuse in alcune repubbliche dell’ex Unione Sovietica e del Blocco orientale. Costruite per durare circa venti anni, questi condomini sono molto fatiscenti se visti dall’esterno, mentre all’interno – per quanto piccoli- gli appartamenti sono quasi sempre intimi, accoglienti e arredati con gusto. Di solito non hanno un giardino, ma al loro centro si trovano spesso parchi giochi per bambini.
In compenso, circa un terzo delle famiglie russe possiede una piccola dacia, spesso poco più di una semplice capanna (anche se alcune sono molto lussuose). Per i russi la dacia rappresenta la fuga alla vita urbana e quindi svolge un ruolo di grande importanza nella psicologia nazionale.
Come risultato delle severe restrizioni cui furono soggette le dacie come dimensione e tipo durante l’era sovietica, alcune caratteristiche concesse, come gli attici e le verande a vetrate, divennero molto diffuse e spesso sovradimensionate. Nel periodo 1963-1985 in particolare, le limitazioni furono più rigide; la costruzione di un’abitazione per una famiglia singola in città e in campagna venne proibita nell’Unione Sovietica, e solo case ad un unico piano senza impianto di riscaldamento con una superficie calpestabile minore di 25 m² vennero permesse come dacie. Dal 1990 è stata eliminata ogni limitazione come dacia e viene stimato che circa un quarto degli abitanti delle grandi città possieda una dacia.
Chiunque occupi una dacia viene chiamato dačnik (in russo: дачник [dačnik]). Anche in altri Paesi, come in Cecoslovacchia, nella Germania dell’est e in Jugoslavia, era diffuso possedere case di campagna.
Le prime dacie in Russia cominciarono ad apparire durante il regno di Pietro il Grande. Inizialmente erano casette estive site in campagna che venivano date ai vassalli leali dallo zar. In russo arcaico, la parola dača significa qualcosa di dato o regalato (deriva infatti dal verbo Давать [davat] che significa “dare”). Durante l’illuminismo, l’aristocrazia russa usò le sue dacie per gli incontri culturali e sociali che venivano solitamente accompagnati da balli in maschera e mostre. La rivoluzione industriale vide una rapida crescita della popolazione urbana e l’incremento del desiderio dei residenti in città di sfuggire, almeno temporaneamente, all’inquinamento. Dalla fine del XIX secolo, la dacia diventò lo svago estivo preferito dalla classe dominante e dal ceto medio della società russa.
Dopo la rivoluzione bolscevica del 1917, la maggior parte delle dacie vennero nazionalizzate. Alcune furono convertite in case di villeggiatura per la classe lavoratrice, mentre altre, solitamente quelle migliori, vennero distribuite tra i funzionari prominenti del PCUS e della nuova ed emergente élite culturale e scientifica. Tutte le dacie salvo poche restavano proprietà dello Stato e il diritto ad usufruirne era solitamente revocato quando l’occupante si dimetteva o cadeva in disgrazia presso il governo. La dacia favorita di Stalin si trovava a Gagra, in Abcasia (territorio caucasico rivendicato alla Georgia come sua repubblica autonoma, ma di fatto indipendente e proclamatosi Repubblica di Abcasia grazie all’aiuto della Federazione Russa). La costruzione di nuove dacie venne limitata fino alla fine degli anni Quaranta e necessitava di un’approvazione speciale da parte dei leader del PCUS.
Il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale vide una crescita moderata nello sviluppo delle dacie. Considerato che non c’era una legge effettiva che vietasse la costruzione di dacie, molti cominciarono ad occupare lotti di terra non utilizzati vicino alle città, alcune baracche, capanne ed edifici più importanti che servirono come dacie. Questa pratica di occupazione venne stimolata dal desiderio degli abitanti urbani, tutti residenti in condomini, di passare un po’ di tempo vicino alla natura, ed anche di far crescere i propri frutti e la propria verdura. Quest’ultimo motivo era causato dal fallimento dell’economia pianificata del programma agricolo che non riusciva a provvedere abbastanza prodotti freschi. Col passare del tempo il numero degli occupanti crebbe geometricamente e il governo non ebbe altra scelta che riconoscere ufficialmente il loro diritto a coltivare “dilettantescamente”. Nel 1955 venne introdotto un nuovo tipo di soggetto nel sistema giuridico sovietico, chiamato società di giardinieri (in russo: садоводческое товарищество [sadovodcheskoye tovarishchestvo]; da non confondere con giardino comunitario). La società di giardinieri riceveva il diritto all’uso permanente della terra esclusivamente per fini agricoli ed il permesso di allacciarsi alla rete elettrica e idrica. Nel 1958 venne introdotta un’ulteriore forma di organizzazione, la cooperativa per la costruzione di dacie (DSK) (in russo: дачно-строительный кооператив [dachno-stroitelny cooperative]), che riconosceva il diritto del singolo a costruire una piccola casa sulla terra concessa dal governo.
Gli anni Ottanta videro il picco del boom delle dacie, quando praticamente ogni famiglia benestante nel paese aveva una dacia di sua proprietà o passava i fine settimana e le vacanze nelle dacie di amici. Spesso disagiate e senza impianto idraulico le dacie erano comunque la migliore soluzione per i milioni di famiglie della classe lavoratrice per avere uno svago estivo a pochi soldi. Avere un appezzamento di terra offriva inoltre l’opportunità per gli abitanti di città di concedersi il piacere di coltivare le proprie piante. Al giorno d’oggi, le vacanze della festa dei lavoratori restano una caratteristica della vita russa che permette ai residenti in città un lungo fine settimana per piantare, seminare e controllare gli alberi da frutto, visto che il terreno si scongela dal lungo inverno russo. Dal momento che non ci sono altre festività nazionali lunghe abbastanza per dedicarsi alla piantumazione, molti datori di lavoro danno ai propri dipendenti un giorno di vacanza in più specificatamente per questo motivo.
Il crollo del comunismo nell’Unione Sovietica vide il ritorno alla proprietà privata. Da allora molte dacie sono state privatizzate e la Russia è ora la nazione con il maggior numero di proprietari di seconde case. La crescita degli standard di vita negli ultimi anni ha dato modo a molti proprietari di investire il proprio denaro in miglioramenti. Quindi, negli ultimi tempi, le dacie sono case completamente equipaggiate, utilizzabili come residenza permanente. L’economia di mercato ha trasformato la dacia in un bene, che generalmente riflette la condizione economica del suo proprietario e può essere liberamente commerciata nel mercato immobiliare.
In conseguenza al rapido incremento dell’urbanizzazione in Russia, molte case nei villaggi sono correntemente vendute per essere usate come dacie. Molti paesi russi ora hanno residenti temporanei, i dačnik. Alcuni villaggi sono stati completamente trasformati in insediamenti composti interamente di dacie, mentre alcuni vecchi insediamenti di dacie non appaiono come abitazioni temporanee. I vantaggi di acquistare una dacia in un villaggio sono solitamente: bassi costi, grandi appezzamenti di terra e grande distanza tra le case. Gli svantaggi possono essere: servizi di bassa qualità, meno sicurezza, e tipicamente una distanza maggiore per raggiungerle.
Una delle principali attività che si svolgono nella dacia è il lavoro nel giardino e nell’orto. Le famiglie colgono l’occasione per coltivare verdure e frutti da consumare durante l’inverno, oltre ai fiori, che svolgono un ruolo primario nella creazione dell’ambiente della dacia. Il contatto con la terra costituisce un’esigenza fondamentale per l’animo russo e anche chi non ha bisogno di avere un orto non rinuncerebbe mai alla possibilità di rifugiarsi in una dacia.
Le dacie di stato assegnate ai membri del governo, accademici, ufficiali superiori dell’esercito ed altre figure importanti sono chiamate “gosdacia” (in russo: госдача [gosdacia], abbreviazione di “государственная дача” [gosudarstvennaya dacha], ovvero “dacia di stato“). Nella moderna Russia, l’amministrazione presidenziale continua a possedere numerose dacie nel paese che sono affittate, spesso non a prezzi di mercato, a funzionari del governo. Il presidente russo ha la residenza ufficiale della sua dacia a Zavidovo e Novo-Ogarëvo. Le gosdacie a Komarovo e Peredelkino a Mosca sono abitate da molti intellettuali e artisti sovietici. Vladimir Putin ha la sua dacia personale a Ozero.
In tempi moderni, l’ascesa di una nuova classe di nuovi ricchi nella società russa, i cosiddetti nuovi russi, ha aggiunto una nuova dimensione al concetto di dacia. Con costi di costruzione che spesso raggiungono milioni di dollari, di fatto un ritorno ai tempi delle dimore di campagna nobiliari pre-rivoluzionarie, le dacie dell’élite del paese non reggono il confronto con quelle dell’era sovietica. La maggior parte delle dacie dell’élite sono costruite di cemento e mattoni a differenza di quelle del ceto medio che sono in massima parte fatte di legno. Assimilabili per dimensione e allestimento a ville e palazzi, esse diventano una complessa ostentazione di status sociale, ricchezza e potere. Questi nuovi simboli di prosperità sono progettati da architetti, solitamente in stile eclettico che rifletta i gusti dei proprietari, con l’aggiunta di numerosi articoli di lusso come statue di marmo, fontane e piante esotiche. Alcuni hanno attrezzature sportive di ultima tecnologia come piscine interne, campi da tennis multipli e stalle. Qualche dacia ha anche una piccola foresta con tanto di laghetto.
Molti magnati, imprenditori di successo, sportivi, popstar e boss mafiosi ora scelgono la dacia come residenza principale. Come risultato di ciò, queste sono spesso circondate da solidi recinti equipaggiati di filo spinato, telecamere di sorveglianza e/o sensori di movimento e, a volte, anche da guardie pesantemente armate.
Oggi la Russia è la nazione che ha il più alto numero di case di campagna o seconde case: le dacie.
Per trascorrere il fine settimana, la classica famiglia russa si prepara per partire la sera del venerdì, quando, la maggiore parte degli abitanti delle città russe si mettono in macchina o sul treno per raggiungere le loro dacie. La giornata del sabato è quella clou: inizia con una colazione a base di un buon tè e prodotti di latte, ricotta, panna acida comprate nel villaggio che si trova vicino.
I grandi scrittori russi quali Ciechov, Pusckin, Dostoevskij , Tolstòj hanno ben rappresentato questa momento nella loro opere.
Nelle dacie il Samovar (in russo самова́р [samovàr]) rappresenta lo status quo della famiglia: un contenitore metallico tradizionalmente usato in Russia (ma anche nei paesi slavi, in Iran, nel Kashmir e in Turchia) per scaldare l’acqua. oggi nelle case di città si usano elettrodomestici, ma d’estate in campagna alla Dacia si preferisce il Samovar, dove l’acqua viene riscaldata introducendo minuzzoli di legno di vari tipi nel cilindro centrale, che è la caldaia, per conferire, secondo la tradizione russa, un sapore particolare all’acqua grazie al fumo che evapora. Si chiama infatti tè “con il fumo“, ed è una tradizione culturale fortemente cara a tutti i russi.
Dopo la colazione tutta la famiglia va a fare una passeggiata nel bosco per cercare i funghi e i frutti, ma se la Dacia si trova vicino a un fiume, gli uomini appassionati della pesca vanno a pescare. I russi preferiscono il così detto “riposo attivo”, per questo tanti di loro coltivarono alla dacia l’orto, per avere tutti i tipi di verdure fresche e sane. Coltivarsi le proprie derrate inoltre, è una tradizione che ricorda a molti quando i loro avi le producevano per superare la fame.
Oggi però, questa occupazione è più un divertimento che un bisogno, tanto che gli orti stanno dando spazio alla coltivazione di fiori ornamentali, e i russi, sempre più appassionati di questo hobby, circondano le loro dacie con fiori dai colori sgargianti.
Al pranzo poi, si preparano le famose zuppe dalla cucina russa come : il borsch (борщ), la schi (щи), ycha (уха), la zuppa con i funghi del bosco ( грибнойсуп) e tanti altri piatti tipici, utilizzando le verdure del orto e quello che offre la natura. Il pranzo viene servito e cucinato direttamente fuori sul fuoco aperto.
Un’altra tradizione che i russi non sono minimamente intenzionati a lasciare, da secoli ormai, è quella della banya, presente ovviamente anche nella loro dacie, e si presenta come una piccola capanna di legno a fianco della casa o comunque poco distante da essa.
Alla sera è arrivato il tempo di preparare gli shashlik (шашлык) un piatto che arriva dai paesi caucasici della ex Unione Sovietica, ma che è diventato un piatto della tradizione russa: carne marinata cotta sulla brace (una griglia che si chiama “mangal”, una versione russa del barbecue).Tra i piatti non può mancare il pesce affumicato, e ovviamente l’amata vodka (anche se oggigiorno spesso si beve anche birra e vino).
Oggi voglio parlarvi di questo interessante articolo che ritrae la figura di Arkadiy Koshko, lo Sherlock Holmes russo. Un articolo che ho trovato nel canale telegram “Piece of Russia” ( e a cui vi invito ad iscrivervi!).
Arkadiy Koshko – Sherlock Holmes russo
Arkadiy nasce nel 1867 a Brozhka, una piccola cittadina bielorussa. All’origine il cognome della famiglia era Koshka (in russo voleva dire “gatta”). Tuttavia durante la dominazione polacca il cognome mutò a causa della pronuncia diversa dei polacchi. Ad oggi invece i discendenti portano il cognome de Koshko, variato in seguito alla migrazione in Francia
La famiglia di Arkadiy era benestante e il giovane intraprende la carriera militare. Tuttavia presto si annoia e riscoperta la passione dei gialli si dà agli studi criminalistici. Già nel 1894 abbandona l’esercito ed entra nella polizia di Riga (capitale dell’attuale Lettonia) come semplice ispettore. Grazie agli studi continui e all’utilizzo delle pratiche all’avanguarda della criminologia mondiale tra soli 6 anni Arkadiy diventa il capo della polizia investigativa di Riga. Passati altri 5 anni il detective viene invitato a San Pietroburgo a ricoprire il ruolo del vice capo della polizia investigativa della capitale dell’Impero russo. Infine, nel 1908 raggiunge la massima della propria carriera da investigatore – diventa il capo della polizia investigativa di Mosca
Arkadiy (a destra) e il capo della polizia di San Pietroburgo
Ereditata l’esperienza nella polizia della capitale, Koshko introduce ampie riforme e per la prima volta crea un archivio vasto e attendibile dei criminali di Mosca, grazie alle tecniche più innovative della criminologia mondiale.
Nel 1913 in Svizzera si è tenuto il congresso mondiale dei criminologi e la polizia russa è stata riconosciuta come la migliore nella conduzione delle investigazioni. Nel 1915 ad Arkadiy viene assegnato il ruolo paragonabile all’odierno procuratore generale.
Tuttavia, a distanza di 2 anni l’Impero viene scosso dalle rivoluzioni – Arkadiy rinuncia all’incarico e si ritira nella tenuta di famiglia. A dicembre del 1917 Koshko vive il primo episodio di scontro con i comunisti – i comissari locali si recano nella sua tenuta e requisiscono la maggior parte dei mobili e poco dopo – il resto dei beni. Nel 1918 ritorna a Mosca e diventa il rappresentante di una farmacia. Venuto alla scoperta del suo imminente arresto lui e suo figlio si travestono da attori e abbandonano la città con una truppa in direzione di Kiev. Successivamente, grazie ai passaporti finti riesce a far fuggire anche il resto della famiglia con cui si riunisce infine a Odessa.
Nel 1920 l’esercito zarista ha ceduto ai rossi anche questa città portuale e Koshko con la famiglia si ritira nell’ultimo baluardo dei bianchi – la Crimea. Durante la permanenza sulla penisola ha occupato un ruolo importante sotto il comando dell’ammiraglio Vranghel’, ma diverse testimonianze danno diverse informazioni – secondo lo storico Rudnev, Koshko ha preso in mano la polizia investigativa, secondo invece la nipote Ol’ga – lavorava nella direzione amministrativa della città di Sebastopoli.
Cadute le difese di Crimea, così come molti altri fedeli allo zar, Koshko fugge in Turchia. Riesce ad aprire l’agenzia di investigazioni private a Costantinopoli, in compagnia di un vecchio amico, ex-capo di un altro reparto della polizia moscovita. Dopo un po’ di tempo l’agenzia comincia a fruttare i primi guadagni, ma tra gli emigrati passa la notizia sulla presunta volontà di Mustafa Kemal (Atatürk) di rispedire tutti i russi dai bolscevichi.
Nel 1923 quindi Arkadiy è costretto a fuggire nuovamente, stavolta in Francia, dove riesce ad ottenere l’asilo politico. A Parigi non riesce a trovare lavoro – la polizia non è interessata ad assumerlo, mentre per la propria agenzia servono soldi. Trova un umile impiego di commesso nel negozio di pellicce.
In quegli anni arriva diverse volte la proposta di lavorare per lo Scotland Yard a Londra, ma Koshko ha sempre rifiutato – per poterci lavorare doveva giurare fedeltà alla corona inglese, rinunciando a quella russa. Arkadiy invece decide di rimanere fedele alla propria patria fino alla morte, avvenuta nel 1928…
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